Hot Spot stand 2018 M.Hatoum –Encounters: Giacometti x Mona Hatoum, Installation view, Level 2 Gallery © Jo Underhill, Barbican Art Gallery.
La mostra è la seconda di una serie di tre dialoghi con Alberto Giacometti. È stata preceduta da Huma Bhabha e si concluderà con Lynda Benglis, co-organizzata dal Barbican Centre e dalla Fondation Giacometti.
Tempo fa in una intervista ad Angela Mengoni, Mona Hatoum ha detto:” I take a theme and then actually introduce another element to it, add another layer, dimension. Somehow objects that we encounter in every day life, by shifting from their original function, contradict it. That takes you to think.”

Mona Hatoum Nasce a Beirut, da genitori palestinesi. A causa della guerra civile è costretta all’esilio, a una vita di passaggi. Si stabilisce a Londra all’età di 23 anni. La sua arte spazia dalle prime installazioni-video in cui il corpo è al centro e poi scultura, fotografia e lavori su carta. Il gioco dei fili materici è fatto di elementi essenziali: capelli, unghie, vetro, acciaio, fluidi corporali, cemento e luce. Moltissime le retrospettive, in prestigiosi musei internazionali, solo per citarne alcuni: Pompidou Paris, Tate Modern, Venice Biennale, Beirut Art Centre.
Oltre le ampie vetrate del Barbican, Level 2, aprono il dialogo i due artisti. Capisco subito che dovrò fare un pezzo di strada in solitudine. Non ho tempo di mettere insieme una ragionevole spiegazione, c’è disequilibrio che spinge i pensieri. Esco dal letargo del già sentito. Mi ritrovo in un vuoto, silenzio, che non è solo mio. In una teca scoppia l’alchimia dei piccoli oggetti fatti a mano. Ostinati. Sembrano aver smarrito la strada. Più in là una culla, dalle sbarre di ferro, (Incommunicado 1993) smette di rassicurare. Adagiate a terra, accanto a “Woman with her throat cut” di Giacometti, “A bigger splash”, coroncine di vetro rosso di Murano, che cadendo a terra come in lenta ebollizione, evocano la presenza di un corpo violato.

Giacometti (1901-1966), portava il peso della distruzione di due guerre mondiali. Quello era il mondo emerso. Appassionato di poesia e letteratura, di arte Egizia e Greca, visse nella Parigi degli anni ’30. Le sue sculture ci arrivano corrose, dal movimento etereo, in uno spazio ingabbiato. Colse nei corpi delle figure stilizzate, il racconto di una umanità fragile, nella ricerca di sè. Il motivo della gabbia (“The cage, 1950) che diventava spazio fisso, ma anche una finestra sul mondo al di fuori.
Nell’opera “Divide” -2025 di Hatoum, il filo spinato sostituisce la stoffa di un pannello divisorio. Osservandola, mi sono chiesta che tipo di filo spinato fosse, se avrei potuto muoverlo altrove. È forse illusorio pensarlo? La storia non finisce qui, strano a pensarsi in un’epoca in cui ci si concentra sulle biografie. Ma noi siamo anche le nostre trasformazioni collettive, giusto?

Per entrambi gli artisti c’è stata attrazione e distanza dal movimento surrealista che, nato dopo la prima guerra mondiale, trovò in André Breton e Marcel Duchamp i propri spiriti-guida. Lo stesso Duchamp sosteneva che l’immaginazione era spinta dall’inconscio profondo: “L’artista agisce come un essere medianico che, dal labirinto al di là del tempo e dello spazio, cerca la sua via d’uscita verso una radura”.

In Hot Spot (2018), l’artista rappresenta il globo terrestre, i confini dei continenti sono in neon rosso, come a delineare un unico conflitto globale. Oggi ci sembra anticipatoria, con lo sguardo rivolto ai conflitti, all’emergenza climatica e agli eventi di morte e distruzione in Ucraina, a Gaza, in Sudan, Congo, Etiopia. Eppure e in contrasto, abbiamo visto le grandi folle camminare pacificamente, per la fine della guerra, in un sentimento di con-divisione.
A presto,


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